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Dott. Mauro Croce - Italia

Psicologo, Psicoterapeuta, specialista in Criminologia Clinica

Ha lavorato per oltre venti anni nei servizi pubblici per le tossicodipendenze , per oltre quindici anni è stato membro della Commissione Regionale per le Tossicodipendenze della Regione Piemonte, per oltre cinque coordinatore di una unità operativa ed ha fatto parte dello steering group per le linee guida tossicodipendenze della Regione Piemonte.

Attualmente è Psicologo dirigente e Direttore della Struttura Semplice Educazione Sanitaria della ASL 14 di Omegna (VB) dove si occupa tra l’altro di progetti di peer-education , prevenzione nelle scuole ed è Responsabile dei Progetti “VideoIndipendenti” e “Verso un gioco responsabile”.

Insegna Psicologia Sociale ed Intervento di Comunità presso la S.U.P.S.I. (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana) di Lugano. Formato in Terapia Familiare presso il Centro Milanese di Terapia della Famiglia ed in Ipnosi corso presso l’AMISI di Milano, ha frequentato corsi di Programmazione Neuro Linguistica a Los Angeles, S. Francisco e Milano ed ha completato una psicoterapia personale individuale ad indirizzo dinamico.

Si è perfezionato presso l’Università di Milano in Formazione e ricerca nelle organizzazioni ed ha frequentato il corso Analisi dei Processi Organizzativi presso lo studio APS di Milano.

Ha partecipato a momenti di formazione sulle tecniche di gruppo con M. Ducceschi, P.G. Branca, etc.

Da vari anni si occupa di intervento e terapia di rete e di psicologia di comunità ed ha approfondito tale approccio con seminari di formazione in Svizzera (Brodeur,Huguet, Besson), e negli USA con Ross e Joan Speck a Philadelphia e con David Chavis a New York. Su tale tema ha scritto diversi contributi ed è stato invitato a condurre,seminari, corsi di formazione e relazioni da parte di organizzazioni pubbliche o private.

Socio fondatore e vicepresidente dell’ Associazione Alea (associazione per lo studio del gioco d’azzardo e dei comportamenti a rischio), si occupa da diversi anni di problemi legati al trattamento di giocatori d’azzardo. Su tale tema ha pubblicato diversi contributi ed è intervenuto come relatore a numerosi congressi nazionali ed internazionali: congresso europeo sul gioco d’azzardo tenutosi a Varsavia nel 2000 ed alla 5th European Conference on Gambling Studies e Policy Issues a Barcellona (2002).

Membro della direzione del mensile Animazione Sociale, ha diretto il trimestrale Pratica Sociale ed è stato membro del comitato scientifico di “Dei delitti e delle pene” (Rivista di studi sociali, storici e giuridici sulla questione criminale).

Attualmente fa parte del comitato consultivo di “Dal Fare al Dire” e della Redazione Scientifica di Personalità/Dipendenze. Ha curato l’edizione italiana di: H. Becker, “Outsiders” ( Torino, 1990); Dickerson, “La dipendenza da gioco” (Torino, 1993); Le Breton “La passione del rischio” (Torino, 1995).

Con Riccardo Zerbetto ha curato “Il gioco & l’azzardo.Il fenomeno, la clinica, i possibili interventi”, (Milano,2001) e con Andrea Gnemmi, Peer Education. Adolescenti protagonisti nella prevenzione, Milano(2003). Quale membro del gruppo di lavoro per l’elaborazione di linee guida di trattamento delle patologie da dipendenze della Regione Piemonte, ha poi collaborato alla edizione italiana di Drug Misure and Clinical Dependance -  Guidelines of Clinical Management (Dept of Health Scottish Office Dpt of Health Welsh Office Dept of Health and Social Services Northern Ireland).

L'uomo post-moderno e le nuove forme di dipendenza

E’ curioso osservare come, in una società che sempre più sta valorizzando l’autonomia dell’individuo, lo svincolo dai legami sociali, l’appartenenza ad una comunità globale, insomma un’idea di uomo libero da confini e limiti, sempre con maggiore evidenzia si stiano diffondendo nuovi e crescenti comportamenti di dipendenza. Oltre ai noti comportamenti di dipendenza da sostanze (ad es. eroina, alcol etc) si stanno delineando forme dipendenza non da sostanze con rischi, comportamenti e costi sociali ed individuali del tutto simili alle dipendenze da sostanze. Dall’uomo ludens, all’homo faber, ci troviamo ora di fronte all’homo comsumptor e consuptus. Ovvero un individuo sempre più svincolato, lontano , insofferente, disilluso e forse anche spaventato da “ogni legame di scopo, da ogni funzione sociale” ma che si illude (sempre più consumatore e consunto) di trovare uno spazio di libertà, di scelta e di autodeterminazione attraverso l’illusione di un accesso illimitato al possesso di cose. Un possesso illimitato che in verità tradisce un sentimento insaziabile di mancanza.

Se la fine dell’Ottocento ed il passaggio al Novecento ha visto l’emergere di forme di patologia ( si pensi ad esempio all’isteria) dovute ad un eccesso di rimozione, di ritegno, alla carenza di soddisfazione degli istinti e dei desideri, l’avvento del nuovo millennio sembra invece indicare una crescita preoccupante di “nuove” forme di patologia che - al contrario - si distinguono per la loro incapacità di controllare gli impulsi. Il cambiamento sociale e psicopatologico è evidente : non ci troviamo più – come poteva essere per l’isteria- di fronte alle problematiche legate all’eccesso di inibizione ma, - al contrario- ad un “difetto” di inibizione. Questa “evoluzione” è certamente legata ad evidente cambiamento degli imperativi della società nei confronti degli individui : al “contegno”, alla repressione degli istinti richiesti il secolo scorso, si sostituisce oggi la necessità di consumare, di godere pienamente: di prendere dei rischi” . Accanto infatti al crescere di fenomeni di dipendenza appaiono inoltre in aumento – o quantomeno destano attenzioni e preoccupazioni– comportamenti di ricerca, incuranza o attrazione verso il rischio che si presentano attraverso forme diverse: guida, velocità, disattenzioni, condotte sessuali, sport estremi, etc. Comportamenti questi che, per taluni aspetti, fanno sospettare come il rischio, da fisiologico momento di passaggio, necessario alla evoluzione di ogni individuo ed ogni comunità umana, si stia invece trasformando per molti in rito di ricerca ed attribuzione di significato. Il rischio pertanto diventa il luogo ove è possibile vivere emozioni, mettere in gioco la propria vita per ritrovarne forse il senso e - attraverso lo sfiorare, l’incontrare la morte - luogo ove allo stesso tempo tale paura viene esorcizzata e dove è possibile in un certo senso ri-nascere.

Paradigmatica si dimostra tuttavia - come evidenzia Alain Ehrenberg – quella che in apparenza potrebbe apparire l’altra faccia di questo quadro ma in realtà ne è forse la tessitura ovvero il “successo della depressione” quale “fatica di essere se stessi”.

Due forze sembrano quindi contrapporsi: da un lato un desiderio ed un bisogno ambivalente di aggrapparsi ad un “qualcosa” da cui dipendere, contrapposto ad un bisogno di fuggire, di sentirsi autonomi, non dipendenti. Ciò che caratterizza tutte le forme di dipendenza sono alcuni elementi paradigmatici: l’incapacità di rispettare dei limiti che il soggetto stesso si pone, l’escalation, la sofferenza dovuta alla mancanza della sostanza o dell’ azione (astinenza), la tolleranza (ovvero la necessità di aumentare l’intensità del tempo, dei rischi, delle “dosi” per ottenere gli stessi effetti); il craving (il desiderio, il crescente bisogno); l’evoluzione (talvolta intermittente, talvolta progressiva, spesso silenziosa) del quadro con conseguenze su diversi piani: personale, della salute, sociale, familiare, economico etc.

Tuttavia è inquietante osservare come questi elementi, classici delle forme di dipendenza da sostanze, si costruiscano e si autoalimentino in assenza di qualsiasi sostanza . Ci si riferisce alla dipendenza da Internet (IAD, Internet Addiction Disorder), da gioco d’azzardo (Pathological Gambling), da acquisti compulsivi (Compulsive Buyers, Shopping Compulsivo, etc. ), da sesso (Sexual Addiction), da esercizio fisico (Exercise Addiction), da lavoro (workalcoholic o workaddiction). Forme “nuove” di relazioni di dipendenza delle quali sempre più si discute e che sempre più si incontrano nel dibattito scientifico, nella pratica clinica, nelle crescenti richieste di aiuto. In tali quadri non si trova “un oggetto esterno chimico” ovvero “un qualcosa” in grado di modificare e ristrutturare “dall’esterno la chimica” del soggetto”. Non ci si può quindi appellare alla presenza di una sostanza esterna, “diabolica”, all’influenza di sostanze inebrianti, tossiche, alla trasgressione, alla devianza, ecc.: fattori che tanta parte hanno avuto nell’esperienza, nella mitologia tossicomanica e negli studi scientifici. All’opposto, tali dipendenze hanno anche a che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e spesso socialmente incentivati: si pensi al consumo, all’esercizio fisico, all’uso di tecnologie informatiche, al lavoro, e così via. E pertanto non si può fare riferimento a condotte devianti, socialmente sanzionate, marginali: disapprovate e da evitare. Inoltre tali comportamenti non sembrano interessare solo la fascia giovanile ed nei percorsi di molti che si trovano coinvolti in maniera distruttiva da queste dipendenze non sembrano rintracciabili elementi visibili di emarginazione e di rischio sociale, quali segnali premonitori o indicatori di disagio, di sofferenza. Se è vero infatti che, in molti casi, le cosiddette dipendenze non da sostanze si integrano, amplificano oppure sostituiscono altre dipendenze, e se è vero che non è raro trovare persone il cui “arrivo” ad una dipendenza è costellato da precedenti momenti di depressione più o meno consapevole, da disturbi affettivi, da scacchi sociali, da precedenti episodi di problematicità magari “non rumorosi”, è anche vero che molte altre persone non possono addurre “cause esterne” o biografie riconosciute di sofferenza. Tale elemento evidenzia come, pur nelle diverse specificità e sviluppi - e nel peso che comunque giocano le disuguaglianze sociali - la possibilità di dipendenza non solo è diventata un qualcosa di trasversale a generazioni, a riti e miti, a bisogni diversi, ma anche - e questo è l’aspetto forse più inquietante – è divenuta una condizione di rischio sociale aperta ad ognuno di noi. In fondo il rischiare, il giocare d’azzardo, lo sperare in una soluzione magica, lo sfidare i limiti, l’aggrapparsi ad una forma di dipendenza “ forse semplicemente” ci può illudere – anche se solo per un attimo – che questi limiti possano non esistere o essere messi tra parentesi, negati. Le nuove identità che ci vengono proposte dal mercato e dai media non solo sembrano spesso fasulle, ma proprio perché nate come individualità-mercato sempre più sono velocemente consumate e usurate proprio perché fasulle. Come ricorda Bauman l’individualismo, che oggi è tanto elogiato, porta solo alla morte dell’individuo e al trionfo del conformismo e dell’eterodirezionalità. L’esaltazione della proprietà e dell’individuo si traduce quindi in una finta proprietà: le cose sono fatte per essere consumate e non per essere possedute ed anche le relazioni sono fatte per essere consumate e non per essere vissute. E’ l’epoca questa del trionfo del leasing identitario, con la diffusione crescente del part-time e del lavoro in affitto, che produce identità parziali anch’esse in affitto: identità transitorie, assolutamente fragili, spesso assolutamente meno libere anche se invocate in nome di una maggiore libertà. Crediamo di essere più liberi in base all’enorme varietà teorica di scelte che crediamo ci vengano poste davanti.

Sentiamo l’obbligo di realizzarci, di essere felici, e questo paradossalmente aumenta la depressione anche perché non è una felicità condivisibile con gli altri e quella degli altri non è da noi condivisibile. Di fronte all’aprirsi di grandi possibilità per la propria esistenza, di grandi scelte, di grandi possibilità di incontro (virtuale) e di superamento di tante frontiere (Internet) guarda caso, emerge la fatica di essere se stessi, di realizzarsi veramente, di costruirsi un orizzonte di relazioni ricco e al tempo stesso sufficientemente consolidate. Non ci si può allora non domandare se questa libertà basata sull’assenza dei limiti e sul ripudio del bene comune, in nome dell’interesse individuale, sulla specializzazione del conformismo, sull’educazione all’anonimato, non produca un sentimento di impotenza collettiva e di paralisi della politica. Di qui la sfiducia la paura e la paralisi “del sociale”, e l’insostenibile pesantezza della solitudine e della cronica precarietà. Come stupirsi allora della diffusione di nuove dipendenze? Già Alonso-Fernandez, aveva ipotizzato come le nuove forme di dipendenza senza sostanza siano legate ed agevolate dalla nuova cultura post-moderna e dall'innovazione tecnologica che producono la “frammentazione” e l’incertezza tipiche dell’attuale identità culturale . L’allargamento dei confini individuali o l’illusione che tali confini siano senza limite non poteva infatti che produrre in tutti noi un sempre più diffuso sentimento di perdita di legami, di disorientamento e conseguentemente un nuovo bisogno di sicurezza (dipendere da qualcosa), di sfida ed illusione di controllo degli eventi anche attraverso il ricorso a “soluzioni magiche” e “rischiose” per la propria esistenza: ricorso anche agevolato da una cultura che visibilizza e valorizza “il colpo di fortuna”, il rischio, l’estemporaneo anziché la fatica del vivere quotidiano. D’altro canto come ricordano Dallago e Rovatti vi è “disponibile nella nostra cultura e soprattutto nella vita urbana, una dimensione di rischio sospesa tra la realtà e l’immaginazione, tra la paura ed il fascino” . E le dipendenze stesse probabilmente non sono solo momenti di rallentamento e di opposizione inconsapevole nei confronti della alienazione consumistica che caratterizza il nostro momento storico, ma forse sono anche rivelatrici preziose dell’esistenza e dell’intensità di un moto di cambiamento, di ricerca di sensi e significati altrimenti senza voce e senza ascolto.